Il Punto sull’Iniziazione Cristiana in Italia

Fratel Enzo Biemmi

Presento tre punti che cercano di fare il bilancio di quanto stiamo tentando di fare a livello nazionale in Italia rispetto all’iniziazione cristiana. Non per dare ricette, ma per aiutare a pensare.

  1. Le convinzioni maturate

Possiamo dire a che punto siamo in Italia? Da una ventina di anni la Chiesa italiana ha investito molto nel rinnovamento dell’iniziazione cristiana. È probabilmente la Chiesa europea che si è maggiormente impegnata in questo campo. Alcune diocesi hanno fatto da apripista, con molto coraggio. Altre più recentemente hanno tratto profitto da questo impegno e si sono ispirate a modelli di rinnovamento che avevano già qualche anno di sperimentazione. Altre comunità stanno ancora alla finestra, desiderose di partire ma esitanti, in cerca di orientamenti e indicazioni di percorso sufficientemente sicure. Altre, infine, dobbiamo riconoscerlo, si limitano a ripetere stancamente quello che si è sempre fatto. Il lavoro di questi anni si è svolto tra momenti di entusiasmo e di scoraggiamento, convinzioni forti e dubbi che hanno fatto spesso capolino, costanza per i tempi lunghi ma anche ripensamenti, frenate e retromarce. È accaduto anche nella nostra diocesi di Verona e nelle altre qui rappresentate. Il tutto ha comportato un impegno notevole nella riqualificazione dei catechisti e dei parroci implicati. Che ne è di tutto questo lavoro? – La prima consapevolezza è stata la rinuncia a pensare che il rinnovamento dell’IC sia prima di tutto una questione di cambiamento delle strategie o dei modelli di catechesi. Neppure il modello catecumenale, che ha ricuperato formalmente e materialmente il processo iniziatico dei primi secoli della chiesa sulla spinta del RICA (da cui le tre note CEI sull’IC1), è in grado da solo di rinnovare l’iniziazione cristiana. Rischia infatti di essere il vino nuovo in otri vecchi. I differenti modelli adottati sono sterili o fecondi (la fecondità secondo Dio e secondo i suoi tempi, naturalmente) a seconda di questa condizione: che ci sia un tessuto ecclesiale generativo, una comunità appassionata della vita che desideri “fare figli”. Si genera là dove c’è un grembo e c’è un grembo là dove c’è desiderio. Al punto di arrivare a dire che se c’è una comunità desiderante, anche i modelli molto tradizionali possono essere efficaci. – Il risultato di questo cammino generoso e delle convinzioni maturate a prezzo di impegno e passione pastorale è confluito negli Orientamenti CEI Incontriamo Gesù (2014). Abbiamo trovato un’intesa attorno a un’espressione che costituisce per il momento il nostro orizzonte di riferimento, pur con tutti i suoi limiti: ispirazione catecumenale. Abbiamo imparato quindi ad operare una distinzione tra la ripresa formale del modello catecumenale (che prevede tra l’altro il riordino dei sacramenti) e l’ispirazione che lo connota e che è in grado di generare e pervadere altri modelli culturalmente situati. Possiamo così riassumere così il senso di ispirazione catecumenale: è iniziazione cristiana l’atto generativo di una comunità che tramite un bagno di vita ecclesiale propone con gioia un tirocinio, un apprendistato alla vita cristiana attraverso le tappe sacramentali, cioè di adesione al Signore Gesù all’interno della comunità dei suoi discepoli. Un bagno di vita ecclesiale, nel quale ha un ruolo importante ma limitato il momento specifico della catechesi. Il n° 52 di Incontriamo Gesù costituisce il riferimento che ci è stato dato. Questo numero indica cinque caratteristiche di un’iniziazione che abbia ispirazione catecumenale: – l’importanza di un cammino globale e integrato, fatto di ascolto della Parola, di riti, di fraternità ecclesiale, di testimonianza di vita e di carità; – il rilievo decisivo di ciò che precede e segue il tempo del catecumenato, ossia rispettivamente la prima evangelizzazione e la mistagogia; – il discernimento che rispetta e promuove la libera e piena rispondenza del soggetto, i suoi ritmi, i suoi tempi (non automatismi dei sacramenti); – la connessione dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, quale introduzione nell’unico mistero pasquale di Cristo; – un percorso che avviene nella comunità, in relazione alla sua vita ordinaria, in primo luogo l’anno liturgico, con un riferimento specifico al vescovo.

Come si può vedere, l’intenzionalità è alta: introdurre in un’esperienza di vita, in un tirocinio che implica un itinerario pluriennale e un tempo più o meno lungo di “mistagogia”.

  1. Le esperienze tentate

E cosa succede nella pratica? Come abbiamo provato a farlo? Se guardiamo le comunità ecclesiali italiane che si sono impegnate nel rinnovamento ci accorgiamo che si sono diffusi tre modelli rinnovati di iniziazione cristiana.

a) Un modello a carattere esplicitamente catecumenale. Tre esperienze fanno da riferimento, per la loro durata e per il peso istituzionale che hanno: quelle delle diocesi di Brescia, di Cremona e di Padova2. A queste si è da poco aggiunta quella di Tivoli. Queste diocesi hanno adottato, per tutte le loro parrocchie, il modello catecumenale, secondo l’articolazione proposta dal RICA e dalle Note della CEI sull’iniziazione cristiana. La proposta prevede un tempo di primo annuncio (dei genitori da soli o insieme ai figli); un percorso di tre anni di scoperta o riscoperta della fede attraverso tappe, riti, consegne e riconsegne; la celebrazione finale unitaria dei sacramenti della cresima e della prima eucaristia nell’ordine corretto (nel periodo pasquale o nella stessa veglia pasquale per la diocesi di Padova); infine un tempo (un anno o due) di mistagogia. Questo modello opera un coraggioso ripensamento di tutto il processo, intervenendo sulle tradizioni parrocchiali e sui tre soggetti implicati: i parroci, i catechisti, i genitori. È un cambiamento esigente dal punto di vista formativo e organizzativo.

b) Il secondo modello che ha avuto una certa diffusione in Italia non interviene sull’ordine dei sacramenti, ma elimina il catechismo settimanale proponendo per genitori e ragazzi un cammino articolato da tempi di catechesi ed esperienze di vita comunitaria. Il modello di cui parliamo è quello dei 4 tempi nato nella diocesi di Verona3, che prevede ogni mese (da ottobre a maggio) 4 tappe: un incontro di evangelizzazione dei genitori (prima settimana); un tempo nelle case per una catechesi familiare, guidata dai genitori (seconda settimana); l’incontro di un pomeriggio per i ragazzi, guidati da un gruppo di accompagnamento, formato dai catechisti tradizionali e da animatori giovani (terza settimana); una domenica insieme delle famiglie (quarta settimana). L’ordine dei sacramenti rimane quello tradizionale, ma la logica del percorso è centrata sugli adulti e sulla comunità ecclesiale. La proposta è fatta in un clima di libertà, mantenendo dove è possibile il doppio percorso tradizionale e rinnovato.

c) Infine, in molte parrocchie italiane è rimasto il modello ordinario di iniziazione cristiana, ma sono in atto iniziative, proposte, piccoli cambiamenti che preparano il terreno per una proposta più missionaria, con il coinvolgimento dei genitori e della comunità. In molte diocesi e parrocchie non ci sono ancora le condizioni per cambiamenti strutturali, ma c’è già la necessità di cominciare a immettere nelle abitudini tradizionali una mentalità nuova. Possiamo dire che queste esperienze non modificano il quadro esterno, ma iniziano a immettere quella “ispirazione catecumenale” di cui si è parlato.

  1. Quello che ci dobbiamo attendere e quello che non ci dobbiamo attendere

Siamo in grado di valutare quanto sia esteso questo movimento di rinnovamento nelle parrocchie italiane? Possiamo dire che la situazione è variegata4. La maggioranza delle parrocchie italiane procede con il sistema ordinario, ma l’esigenza di cambiamento sta crescendo sempre di più. Con quali risultati? Se guardiamo a quanto sta avvenendo nelle comunità che hanno provato con fatica a rinnovare il modello di iniziazione cristiana secondo la linea di ispirazione catecumenale si può rimanere delusi. Viene da dire: la montagna ha partorito il topolino. Eppure questa è solo una lettura superficiale dei

dati emersi. Una lettura più pacata rileva altro. Per andare un po’ più in profondità nella valutazione proviamo a guardare cosa ci restituiscono le verifiche fatte dopo alcuni anni di sperimentazioni riguardo ai tre soggetti implicati: i ragazzi, i genitori, le comunità ecclesiali implicate.

I ragazzi

Un dato che emerge è che il rinnovamento messo in atto non ha cambiato all’apparenza le cose per quanto riguarda i primi destinatari, i ragazzi. La continuità di appartenenza e di pratica sembra essere simile a prima del rinnovamento dell’IC, se non addirittura inferiore, non essendoci più la cresima a trattenere i ragazzi fino alla III media. Risulta ad esempio che i ragazzi, terminato il percorso, disertano l’eucaristia domenicale come avveniva con il modello precedente, mentre manifestano una certa disponibilità a partecipare alle altre attività parrocchiali o di oratorio nei contesti in cui c’è un buon tessuto relazionale e una buona proposta di animazione. Nulla di nuovo sotto la luce del sole, si potrebbe dire. La reazione immediata e comprensibile è di delusione: occorreva fare tutto questo lavoro per non ottenere nessun risultato? Ma la lettura deve essere meno emotiva. Che 3 su 4 ragazzi se ne vadano dopo la conclusione dell’IC è in fondo un dato fisiologico. Sono allontanamenti naturali, in qualche modo necessari per una interiorizzazione e personalizzazione di quanto si è ricevuto per tradizione. Qualcuno “se ne va” restando, altri se ne vanno andando via. Prendono le distanze. Le domande giuste da farsi sono le seguenti: “Come se ne vanno? Da che cosa? Con quale messaggio rispetto alla fede e alla comunità?”. “Come se ne andavano prima e come se ne vanno ora?”. Una cosa è certa: a differenza delle precedenti generazioni, questi ragazzi vedono alcuni adulti (i loro genitori e quelli dei loro coetanei) parlare della fede, trovarsi attorno alla Parola di Dio, condividere la loro esperienza dentro la comunità ecclesiale, partecipare con loro all’eucaristia. Possiamo sperare che questo abbia perlomeno l’effetto di farli uscire da un metamessaggio che essi coglievano chiaramente: la fede è una cosa utile fin che si è bambini. Se si vuole diventare grandi, occorrerà lasciarla perdere, come i loro genitori5. Ma ci sono altri messaggi importanti, prima di tutto la figura di fede che è stata trasmessa. In prospettiva missionaria e di primo/secondo annuncio si tratta del kerigma, così come è definito da papa Francesco al n. 164 di EG: «“Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”». È questa la figura di fede che si portano via? Noi siamo delusi perché tre su quattro se ne vanno e ci rallegriamo per il quarto che resta. Ma la domanda vera dovrebbe essere: con cosa se ne vanno e con cosa resta? Se si allontano con il messaggio del kerigma nel cuore e l’esperienza di una comunità accogliente, questo costituisce il patrimonio perché in futuro possano riprendere il cammino, se la grazia di Dio e la loro libertà lo permetteranno. Se invece hanno dentro una visione di fede ridotta a morale e l’immagine di una comunità disinteressata, fondamentalmente rituale e poco interessante per il loro bisogno di vita, sarà difficile che tornino. Analogo è il discorso per chi resta. Non c’è molto da rallegrarsi se restano, ad esempio, come sono restati gli attuali giovani venti-trentenni del Trivento: essi affermano che il cristianesimo che hanno recepito è un pacchetto di norme e di divieti stabiliti da Dio e imposti dalla chiesa, cioè l’esatto contrario del primo annuncio6. E allora che l’IC termini in quinta elementare o in terza media, non fa grande differenza. La considerazione decisiva sugli gli effetti del rinnovamento per i ragazzi non è quindi quantitativa, ma qualitativa, e questo non può essere verificato nell’immediato. Il dato all’apparenza negativo va preso come un invito a stare attenti a ciò che è decisivo.

I genitori

I dati sui genitori sono più confortanti, ma presentano un’ambivalenza significativa, così riassumibile: il percorso rinnovato di IC non contribuisce a riavvicinare persone lontane, mentre rappacifica con la comunità e riapre un certo cammino di fede per i genitori già in qualche modo più vicini. Più che di conversione, quindi, parliamo di ricominciamento per un numero non trascurabile di genitori. L’effetto per alcuni di loro è di un secondo primo annuncio. Questo è un dato che ha due risvolti: a) Se il rinnovamento dell’IC ha riavvicinato alla fede e rappacificato con la comunità alcuni genitori, questo è molto più significativo del primo dato, quello sui ragazzi (il quale comunque non va sottovalutato). Infatti l’ispirazione catecumenale tende a spostare l’asse verso gli adulti, perché questa è la condizione per un futuro della fede dei bambini, se non vogliamo che si perpetui il puerocentrismo ecclesiale. La quantità anche qui conta poco, perché la fede e il suo ricominciamento non sono calcolabili in termini cronologici dalle nostre programmazioni: sono il mistero della grazia di Dio e della libertà umana. Alla comunità cristiana tocca “creare le condizioni” e togliere gli ostacoli perché accada quello che non è nelle sue mani. b) Il secondo dato è altrettanto istruttivo. Non si sono avvicinati i genitori più lontani. Come leggere questo? Semplicemente prendendo atto che l’IC non può da sola farsi carico di tutto il compito missionario della pastorale. Per molti adulti, in particolare per chi si è marcatamente allontanato o è in questa fase della vita del tutto disinteressato alla fede, gli appuntamenti per un possibile kerigma riguardano tutti i passaggi della loro vita, di cui uno è l’esperienza genitoriale, ma altri decisivi sono l’esperienza dell’amore, del fallimento di un matrimonio, della perdita di lavoro, della malattia, di un lutto, della propria fragilità, del proprio morire. I dati sui genitori sono doppiamente significativi: per quello che riscontrano come risultato incoraggiante, per lo stimolo che essi implicitamente contengono ad allargare a tutta la pastorale la prospettiva missionaria richiesta da papa Francesco.

La comunità

Il terzo soggetto implicato è la comunità promotrice di questo rinnovamento. Ci riferiamo ai presbiteri, ai consigli pastorali e ai catechisti, ma indirettamente a tutta la comunità parrocchiale. Cosa è cambiato a questo livello? Non si rinnova l’IC se rinnovando un modello catechistico questo non rinnova coloro che lo propongono. Sarebbe una pura questione strategica, come se da una parte ci fosse la comunità che detiene il vangelo, dall’altra quelli che lo devono ricevere. Uno sguardo complessivo sul rinnovamento dell’IC in molte diocesi italiane mostra come il dato più confortante sia proprio questo: al di là degli effetti sui ragazzi e sui loro genitori, questo grande cantiere ha rimesso in moto la comunità ecclesiale, ha restituito fecondità a un grembo da troppo tempo sterile. Sono diverse le testimonianze di presbiteri che dicono che hanno ritrovato il gusto del loro ministero, pur con le fatiche e gli scombussolamenti richiesti. Questo è ancora più evidente per i catechisti e gli animatori che testimoniano di essere usciti dalla solitudine e di avere ripreso il gusto del loro servizio catechistico e il cammino di fede personale, grazie in particolare agli adulti con i quali e non per i quali fanno catechesi. Occorre dunque chiedersi se il rinnovamento dell’IC di questi ultimi anni ha confermato la verità della felice affermazione del n. 7 del documento sul volto missionaria delle parrocchie in un mondo che cambia: «Con l’iniziazione cristiana la Chiesa madre genera i suoi figli e rigenera se stessa»7.

Come si può notare, guardando le pratiche di IC, occorre dare peso inverso ai tre soggetti implicati: prima i protagonisti dell’iniziativa (la comunità), poi gli adulti genitori, infine i ragazzi. Se i primi due soggetti sono almeno parzialmente trasformati, allora anche i ragazzi avranno davanti a sé un futuro possibile per la loro fede.

  1. Il nocciolo del problema

Come possiamo capire il nocciolo della questione è dunque la capacità generativa delle nostre comunità ecclesiali. Solo all’interno di comunità vive possono trovare efficacia i vari modelli messi in atto. Ritorneremo esplicitamente su questo punto dopo avere analizzato due pratiche di IC, quella di una parrocchia di Bari e di una parrocchia di Modena. Per ora abbiamo chiarito questo: si è iniziati alla fede se si viene nell’esperienza di una comunità ecclesiale che ha un grembo generativo, appassionata della vita e che desidera trasmetterla alle nuove generazioni.

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